AFFARI SPORCHI (il caso Tandoy, 1960)
Nel 1960 la millenaria mafia non esiste, o tutt’ al più è folklore oppure una menzogna inventata dai biechi polentoni per infamare la Sicilia o, come barriscono i proto-leghisti del Nord, si tratta di cose da terroni che si scannano tra di loro.
Fesserie, come risulterà chiaro nei decenni successivi e come verrà invano evidenziato da investigatori, magistrati, ed intellettuali di indubbio spessore morale. E’ proprio in quel 1960 che Leonardo Sciascia scrive il suo splendido “Giorno della Civetta”, la più grande e chiara denuncia della mafia in quegli anni di scarsa grazia, rivelando agli ignavi che la criminalità organizzata siciliana non è più (se mai lo è stata) solo contadina, ma è ben inserita nel mondo degli affari e della politica.
Quel 30 marzo 1960 Leonardo Sciascia sta ancora lavorando al suo “Giorno della civetta” quando, nella sua Agrigento (lo scrittore è originario della stessa provincia) accade un episodio che sembra tratto pari pari da uno dei suoi grandi romanzi.
Sono circa le 20,30 quando un killer solitario esce dall’ombra di un portone nel centrale Viale della Vittoria e piomba alle spalle di una coppia di coniugi che sta facendo rientro nella propria abitazione e, senza dire una parola, estrae una pistola calibro 9 corto e fa fuoco per cinque volte contro l’uomo uccidendolo sotto gli occhi terrorizzati della moglie. Una delle pallottole esplose però manca il proprio bersaglio e uccide un innocente, lo studente Antonino “Ninni” Damanti che sta chiacchierando con alcuni amici ad una cinquantina di metri di distanza. Avrebbe compiuto 17 anni tre giorni dopo.
La scoperta dell’identità della vittima designata dell’agguato è clamorosa e fa sobbalzare la gente che conta nei palazzi siciliani: si tratta del commissario capo Cataldo Tandoy, già dirigente della Squadra Mobile di Agrigento e da qualche mese trasferito a Roma, alla Scuola Superiore di Polizia dove ora dirige lo Schedario Criminale.
In questo periodo si trova nella città siciliana per un breve periodo di tempo, per testimoniare ad un processo. Chi lo ha ucciso quindi ha colto il momento giusto.
Ma chi è il commissario Cataldo Tandoy, che viene onorato da messaggi di cordoglio da parte delle massime autorità nazionali (capo della Polizia per primo), che viene salutato da solenni funerali di Stato nel duomo di Agrigento e che i giornali di poco successivi al delitto esaltano con parole alate non lesinando in aggettivi come “coraggioso” e “valoroso” e usando frasi che pochi giorni dopo suoneranno imbarazzanti come “molti umili e deboli sentivano in lui una difesa sicura contro le prepotenze della mafia” .
Cataldo Tandoy, 44 anni, barese, un volto e un fisico che ricordano in peggio quello dell’attore americano Martin Balsam (grande caratterista, ma non proprio un Adone), sposato con Leila Motta, una donna molto bella per la quale però la fedeltà è solo un optional, è ad Agrigento dal 1946.
Nel 1947 ha effettuato una splendida operazione, arrestando esecutori e mandanti dell’assassinio del sindacalista Accursio Miraglia, presidente della camera del lavoro di Sciacca. In un Paese normale il poliziotto che ha coordinato una simile brillante inchiesta verrebbe premiato e si ritroverebbe agli inizi di una splendida carriera. In Italia no. I killer di Miraglia denunciano Tandoy accusando lui ed altri agenti della questura di Agrigento di averli torturati per costringerli a confessare. Tandoy viene assolto ma il processo al quale lui è stato sottoposto lo costringe ad accettare una sgradevole verità: compiere il proprio dovere è inutile, tanto vale adeguarsi al sistema. Da allora le sue inchieste non brillano più granchè, finendo fatalmente in nulla di fatto. Ma quello che è peggio sono le sue frequentazioni. Non solo quelle politiche, ma anche criminali, dato che il funzionario di polizia ha delle frequentazioni con gli elementi della mafia agrigentina, specialmente della cosca di Raffadali, che solo eufemisticamente potrebbero essere definite “deplorevoli” .
Forse è da lì che dovrebbero partire le indagini sul suo assassinio e di quello del povero Antonio Damante, ma in realtà cominciano i grandi depistaggi. Come accadrà nel “Giorno della civetta”, ad essere accusati di essere mandanti dell’omicidio sono la bella moglie del commissario, Leila Motta ed il suo amante, il professor Mario La Loggia, direttore dell’ospedale psichiatrico cittadino, delitto che sarebbe stato eseguito da due poveracci assunti per la bisogna. A lanciare le accuse sono una serie di voci anonime corroborate dal fascino pruriginoso delle storie di corna, che in Italia scatenano la curiosità morbosa del pubblico. Alla fine, per la gioia della stampa scandalistica, arrivano le manette per la moglie fedifraga e per il tenebroso seduttore di provincia mentre i giornalisti si sbizzarriscono sulle prodezze erotiche della signora.
Leila in realtà è “colpevole” di essere solo la moglie infedele di un marito che delle scappatelle della consorte, note a tutta Agrigento, se ne fregava. Incredibilmente diventa la pista privilegiata per il delitto, anche se non ha molto senso che due amanti decidano di ammazzare un marito che le proprie disavventure coniugali le subisce con disinteresse o al massimo con rassegnazione. E’ interessante però notare che il terzo lato del triangolo, il professor La Loggia, sia fratello dell’ex presidente della regione Sicilia ora in predicato per diventare presidente del Banco di Sicilia, posizione che non raggiungerà a causa del coinvolgimento del fratello nell’indagine sul delitto Tandoy.
Come detto gli inquirenti privilegiano la pista delle corna. Un vero peccato, perché magari scavando nel passato di Tandoy potrebbe uscire qualcosa di interessante, come la strana storia del feudo Graziano, avvenuta pochi mesi prima del trasferimento d’ufficio del commissario. Si tratta di uno dei più vasti appezzamenti di terreno della provincia, di cui sono proprietari i fratelli Cammarata, due possidenti di Canicattì i quali hanno ricevuto la classica offerta che non si può rifiutare da Diego Di Gioia un importante mafioso loro concittadino, il quale vuole il feudo per i proverbiali quattro soldi. I due fratelli, comprensibilmente spaventati, si sono rivolti a Tandoy. Ora, ci si aspetterebbe che un poliziotto agisca come tale, con serie indagini che portino all’accertamento della verità. Sbagliato: Tandoy opera diversamente, come con ogni probabilità volevano i due possidenti i quali non ignoravano certo gli ottimi rapporti del funzionario di Polizia con le cosche di Raffadali e Siculiana. Tandoy scrive una lettera nella quale “consiglia” Di Gioia a scendere a più miti consigli e affida la propria missiva al comandante dei vigili urbani di un paese della provincia, affinchè la recapiti all’interessato. Il comandante fa anche qualcosa di più, forse dietro consiglio dello stesso Tandoy, e parla a quello che in quel 1959 è certo il più noto mafioso d’Italia: don Giuseppe Genco Russo da Mussomeli, il quale si precipita a Canicattì e costringe Di Gioia a calare le proprie pretese, avanzando una proposta più alta per il feudo Graziano, anche se ancora ben lontano dall’effettivo valore delle terre. Nel 1961 il terreno cambierà proprietà, passando a Di Gioia, ma nell’affare ci hanno guadagnato tutti, compreso Genco Russo. Anche il comandante dei vigili ha ricevuto la sua brava fetta e, a quanto pare, anche a Tandoy sarebbe spettata una parte dell’incasso, parte che egli nonostante diversi solleciti non avrebbe mai ricevuto.
Se poi si vanno ad esaminare anche altre vicende, i rapporti del commissario con la mafia non si limitano solo a quello. Se era noto che Cataldo Tandoy fosse legato ai clan di Siculiana e Raffadali, una seria inchiesta sul suo omicidio avrebbe dovuto puntare proprio su questi perversi legami, ad esempio sulle umilianti visite che il funzionario di polizia faceva al boss di Siculiana, Leonardo Caruana, per implorare il prestito di cinquantamila lire oppure sulle violente ca**iate che il boss di Raffadali, Santo Librici, si permetteva di fare a Tandoy nel suo stesso ufficio, davanti a funzionari ed agenti.
Ma forse a cambiare tutto sono le disinvolte indagini da parte di Tandoy sull’omicidio avvenuto nel gennaio del 1959 di Antonino Galvano, un capo mafia di Raffadali, avversario di Librici e del suo sodale, Vincenzo Di Carlo. Tandoy, grazie alle rivelazioni di un confidente, arresta i due esecutori materiali, due poveracci arruolati per quattro soldi, ma più in là non va. Ad esempio nel suo rapporto all’autorità giudiziaria non fa un solo accenno ai mandanti e non fa svolgere una perizia balistica sull’arma del delitto, che l’avrebbe collegata all’omicidio di un altro mafioso compiuto dalla cosca Librici- Di Carlo. Poco dopo arriva il trasferimento a Roma, in un ufficio che è di fatto una condanna per la sua carriera, ma prima della partenza Tandoy riceve la visita della madre di uno degli assassini, la quale non accetta che suo figlio sia l’unico a pagare e chiede al commissario di testimoniare in favore del giovane. Tandoy esplode, urla che è stanco di farsi umiliare, che in aula dirà la verità, che rivelerà il nome dei mandanti.
Per Librici e Di Carlo il servizievole commissario del giorno prima ora è diventato una incontrollabile mina vagante. Se in tribunale si limitasse a confermare le sue accuse contro gli esecutori materiali, spedendoli all’ergastolo, nessuno garantisce che i due assassini non vuotino il sacco contro Librici e Di Carlo, mettendoli in un mare di guai. Molto meglio eliminare il problema alla radice. Con la morte del commissario infatti i due esecutori materiali dell’omicidio di Galvano vengono prosciolti.
Per accertare tutto ciò basterebbe davvero poco… il problema è che in questura ad Agrigento quel poco è già troppo. Giusto per dirne una, appena pochi mesi prima del trasferimento di Tandoy qualcuno ha fatto sparire dalla cassaforte del gruppo guardie di PS i sei milioni di lire degli stipendi durante una serata descritta in modo piuttosto imbarazzante da un articolo dell’Unità. La vedova di Tandoy per difendersi dall’infamante accusa di essere la mandante dell’assassinio del marito riporta alla memoria l’episodio, accusando un tenente di PS di essere il responsabile dell’ammanco e dell’omicidio di Tandoy, il quale lo aveva messo sotto inchiesta. Qualcosa c’è, dato che nemmeno un mese dopo l’assassinio di Tandoy viene arrestato un maresciallo e cinque anni dopo il tenente viene rinviato a giudizio per peculato.
Insomma, forse ad Agrigento non c’è proprio la volontà di indagare seriamente sulla morte di Tandoy e dell’innocente Ninni Damante. Messi di fronte ad alibi, a testimonianze a favore degli accusati, all’assenza dell’arma del delitto e alle amicizie in alto loco della famiglia La Loggia, gli inquirenti lasciano cadere le accuse contro la vedova del commissario, il professor La Loggia ed i due poveri cristi accusati di essere gli esecutori materiali dell’omicidio, i quali vengono tutti rilasciati.
La conduzione delle indagini è così deludente anche per quegli anni di scarsa grazia da costringere la Procura Generale di Palermo ad inviare ad Agrigento un magistrato, il dottor Giovanni Fici, il quale riapre l’inchiesta. Il dottor Fici scopre che la sfuriata di fronte alla madre di uno degli assassini di Galvano non è stata unica. Scopre che di fronte alla distruzione della sua carriera Tandoy aveva minacciato in più occasione di vendicarsi di chi l’aveva abbandonato dopo quattordici anni di “collaborazione” e di voler svelare fatti e misfatti di tutti, compresi i politici. A quanto sembra il commissario ha addirittura preparato un dossier che rischia di procurare molti fastidi non solo in Sicilia ma anche a Roma.
L’inchiesta sul delitto riprende con slancio e riceve un nuovo impulso con le confessioni di un mafioso di Raffadali, il quale, dopo essere sopravvissuto ad un attentato, svela le trame della guerra di mafia che sconvolge la cittadina dal 1947 e di cui l’omicidio Tandoy è uno degli episodi, e accusa Librici e Di Carlo. E’ quest’ultimo un personaggio interessante, segretario della DC a Raffadali e giudice conciliatore (chissà come mai il tribunale di Agrigento lo ha nominato tale), provvisto di porto d’armi, nei rapporti di polizia viene descritto come “capo della mafia locale (..) gode di buona stima e viene reputato una persona seria ed assennata” mentre un brigadiere dei carabinieri gli ha scritto una specie di lasciapassare indirizzato alle forze dell’ordine in cui è detto che il buon Di Carlo deve essere aiutato e favorito.
Solo nel 1961 i carabinieri di Raffadali cambiano registro ed accusano Di Carlo, sia pure cautamente, di essere un capo cosca.
Fici lavora senza tregua ed il suo lavoro viene premiato. Di Carlo viene arrestato nel settembre 1963 (solo due mesi dopo la DC lo solleva dall’incarico di segretario a Raffadali). Fici non gode però a lungo del proprio successo professionale, dato che viene sollevato prima che riesca a scoprire i padrini politici di Di Carlo e i loro legami tra costoro, il mafioso e Tandoy.
Il processo per il delitto, trasferito a Lecce per legittima suspicione, non svela il nome dei politici coinvolti negli affari sporchi. Di fatto a pagare sono solo i mafiosi del clan Di Carlo e Librici, condannati a pesanti pene detentive.
Le carte di Cataldo Tandoy, se mai sono esistite, scompaiono. Del memoriale che nelle sue intenzioni era destinato a sconvolgere Agrigento, Palermo e Roma non si saprà più nulla.
Leila Motta, vedova Tandoy negli anni successivi cercherà di intraprendere la carriera cinematografica alla luce della sua fama di donna fatale, ma Cinecittà la mette alla porta praticamente subito. Le rimane la “gloria” di essere stata l’ispiratrice di un altro grande romanzo di Sciascia “A ciascuno il suo”.
Ma c’è un’altra donna, di cui non abbiamo parlato nel nostro racconto. E’ Giuseppina, la mamma di Antonio “Ninni” Damanti, che i giornali del 1960 ritraggono mentre abbraccia disperata la salma del figlio adolescente.
Non si stancherà mai di chiedere giustizia, tanto da pressare continuamente gli inquirenti per costringerli a continuare le indagini, a tempestare di lettere i parlamentari siciliani, il Capo dello Stato, il Papa per invitarli a non spegnere l’attenzione sul caso. E’ stata ricevuta in udienza dal presidente Gronchi e dal ministro di Grazia e Giustizia, i quali le hanno promesso il loro interessamento.
Non è servito, tanto che nel 1962 decide di andare a piedi da Agrigento a Roma per sollecitare ancora l’intervento del Capo dello Stato.
Si è presentata addirittura all’Assemblea Regionale siciliana, chiedendo solo giustizia e i deputati, molti dei quali eletti con voti quanto meno dubbi e che non si fanno scrupoli di stringere mani sporche di sangue, non hanno avuto il pudore di ascoltarla, anzi l’hanno addirittura cacciata dalle sacre Aule. Negli anni raggiungerà Lecce con i propri mezzi, senza ottenere un solo aiuto da parte dello Stato, per seguire il processo agli assassini del suo Ninni, sino alla conclusione dell’iter giudiziario avvenuto nel 1975 in Cassazione, senza mai perdere la propria fede nel fatto che un giorno a Ninni sarebbe stata resa giustizia.
Ed è proprio con questo ricordo di Giuseppina Damanti che chiudiamo questo racconto, per ripulirci “dentro” dopo questa storia di malvagità, di squallore e di corruzione, con un personaggio positivo e degno che fa giustizia dei troppi indegni di cui abbiamo narrato le gesta.
Fonti: “Da cosa nasce cosa” di Alfio Caruso, Longanesi, 2000; “Corriere della Sera”, “Stampa” e “Unità” del 1 aprile 1960 e successivi.