UN POLIZIOTTO D’ALTRI TEMPI
di Gianmarco Calore
Capita spesso in queste calde sere d’estate di incappare in qualche vecchia pellicola degli anni ’70 trasmessa magari in seconda serata da una rete minore. “Milano violenta”, “Roma a mano armata”, “Un poliziotto scomodo”…. Tutti film girati negli anni in cui per le strade si sparava ogni giorno e che hanno inaugurato un filone cinematografico – il poliziottesco – che ha fatto storia. In questi film trovi poliziotti duri che combattono contro criminali altrettanto duri. E trovi funzionari dal pugno di ferro senza guanti di velluto. Funzionari sempre in prima linea, al fianco dei loro uomini, con la cicca perennemente incollata ad un angolo della bocca. Gente dallo sganassone facile ma spesso dal cuore d’oro, colleghi che non avevano paura di niente e di nessuno, neanche dei sonori “cicchetti” del questore di turno, dipinto sovente come avaro burocrate.
Questi film possono fare sorridere, oggi. E quei poliziotti rudi e brutali adesso non farebbero certo molta strada con i loro metodi spicci, ma tante volte fruttuosi.
Già te lo vedi, il “signor Commissario”: pantaloni scampanati come voleva la moda del tempo, cravatta allentata dopo ore di lavoro ininterrotto, due paia di folti baffi a volte intrisi di nicotina, maniche di camicia arrotolate su avambracci nerboruti, occhio clinico che da dietro gli occhiali sa valutare con assoluta precisione ogni elemento d’indagine.
Un uomo così è esistito davvero.
Si chiamava Boris Giuliano ed era un Vice Questore di Pubblica Sicurezza che guidava i suoi uomini in uno dei settori più duri e difficili dell’Italia degli Anni ’70: la Squadra Mobile della Questura di Palermo. I suoi uomini? Di più, i suoi figli. Ti chiedeva anche l’anima, lo “sceriffo”: non c’era vita familiare per te, guardia o maresciallo che fossi; il telefono suonava a casa tua a tutte le ore del giorno e della notte. Magari tua moglie si era abituata, magari no. Ma bastava un suo cenno: “Dottò, mo’ arrivo….”
Erano tempi duri a Palermo: la mafia stava scalando vette di una criminalità fino ad allora insospettata. Collusioni a tutti i livelli, il traffico sempre più fiorente di armi e stupefacenti, i continui salti di qualità dei picciotti. E le guerre tra cosche. Si sparava ogni giorno, a Palermo, in una sorta di quotidiano far west metropolitano: sparavano loro, sparavamo noi. Il soprannome di “sceriffo” il dottor Giuliano se lo era guadagnato sul campo, fianco a fianco con i suoi ragazzi. Sapeva usare la pistola tanto bene come sapeva usare altrettanto bene la penna. Paura di niente, paura di nessuno. Poco avvezzo alle “carte” e ad ogni genere di pastoia burocratica, lo “sceriffo” arrivava ogni mattina in questura, spesso dopo una notte passata in bianco, appena il tempo di tornare a casa a cambiarsi, un bacio alla moglie e ai piccoli Alessandro, Selima ed Emanuela e via, instancabile schiacciasassi. Era stato a lavorare in America e lì aveva imparato tecniche di indagine nuove. La mafia lo temeva, questo inarrestabile baffone. E il colpo grosso lo fa subito: all’aeroporto di Punta Raisi intercetta due valige cariche di soldi, più di cinquecentomila dollari; nello stesso momento a New York gli organi di Polizia collaterali sequestrano con perfetta coordinazione tanta di quella droga da imbiancare la “grande mela” per anni. E’ il primo a collegare mafia italiana a mafia italo-americana: il “teorema Giuliano”.
Un poliziotto all’antica, il dottor Giuliano, forse l’ultimo di quella vecchia stirpe di investigatori che avevano il mestiere nel sangue. Sapeva valutare l’attendibilità dei confidenti con la stessa sicurezza e precisione con cui veniva incontro al delinquentello che tale era diventato per necessità più che per volontà. E a suo modo la mafia lo rispettava perchè mai era andato oltre quella sottile linea di confine che separa il mafioso dal poliziotto: il rispetto.
Poliziotto all’antica ma attento all’evoluzione del moderno: unico italiano a frequentare nel 1975 il corso presso la F.B.I. americana, parla l’inglese con la stessa proprietà del dialetto palermitano.
Non c’è nulla di più eloquente delle foto di quest’uomo: guardale e capisci subito di trovarti di fronte all’incarnazione stessa del concetto di Poliziotto. Un segugio di sbirro che per fare funzionare la sua “Mobile” non esitava a pagare di tasca propria le “veline” per i rapporti, le penne, il nastro della macchina da scrivere, le sigarette per i colleghi.
Ha pestato piedi importanti, il dottor Giuliano: nomi come quello di Leoluca Bagarella pesano sempre. La mafia stava cambiando, però: il clan dei marsigliesi cedeva il passo a mafiosi più agguerriti e senza scrupoli che avevano perso quel rispetto che veniva comunque portato a chi faceva il proprio lavoro con onore. Lui lo sapeva, se ne era accorto. Però non si fermò mai, nemmeno quando pochi giorni prima di essere ucciso arrivò la sua condanna a morte sul 113:”Giuliano morirà”.
La mattina del 21 luglio 1979 è una mattinata calda come caldo è il sole della Sicilia. Il dottor Giuliano esce di casa, si intrattiene qualche minuto con il portiere a cui salda l’affitto. Esce dall’androne: il suo fedele brigadiere che ogni mattina passa a prenderlo con una “Giulietta” è in ritardo. Succede. Il sole caldo lo invita a fare quattro passi, inforca gli occhiali da sole e si dirige verso il vicino bar Lux. Cammina con passo deciso, questo sceriffo in abito di lino bianco, il revolver saldamentre fissato alla cintura interna dei pantaloni. Entra, ordina un caffè al banco e non si accorge di un giovane che gli si avvicina alle spalle. Chissà a cosa stava pensando, il vecchio leone, per non avere fiutato il pericolo che gli si avvicinava subdolo e strisciante come un serpente. Sta sorseggiando il suo caffè – il primo della giornata, l’ultimo della sua vita – quando la calibro 9 fa fuoco, colpendolo alla testa con letale precisione. Il killer – proprio quel Leoluca Bagarella moderno “barone rampante” di una mafia nuova e disonorevole “uomo d’onore” – non gli dà scampo.
Potrei descrivervi le foto del funerale. Potrei dirvi di quanta gente comune gli tributò piangendo l’ultimo saluto. Potrei riportare le parole del cardinale Pappalardo all’omelia. Non serve.
Serve invece parlarvi di Alessandro, suo figlio e “figlio d’arte”. E lo farò rispettando la sua riservatezza, uomo schivo com’è. Di lui vi dirò solo che è stato Dirigente della Squadra Mobile di Padova, la mia questura. Un saluto per tutti i Colleghi la mattina quando arrivava, un saluto quando se ne tornava a casa. Poche parole, ma uno sguardo che diceva tutto. Lo stesso acume investigativo del padre gli ha permesso di risolvere brillantemente in poche settimane il caso del serial killer Profeta che stava terrorizzando la città. In un attimo si è guadagnato il rispetto e la stima di una “Mobile” fatta di duri Ispettori con trentennale esperienza di strada, che ne hanno viste di cotte e di crude. Questo giovane Commissario Capo li ha messi tutti in riga, i suoi figli, come credo abbia fatto suo padre trent’anni prima in un’altra città, in un’altra Italia.
Il vecchio leone sta continuando a vivere nel piccolo tigrotto: questo è il più bel regalo che ci ha lasciato un uomo unico, un Poliziotto d’altri tempi.
Per la Redazione Cadutipolizia
Gianmarco Calore