Con le spalle al muro
CON LE SPALLE AL MURO
Cuneo: la battaglia di corso Dante
di Gianmarco Calore
25 aprile 1945, data ufficiale della Liberazione.
Sempre ufficialmente, cessano tutte le ostilità belliche: il nemico nazista è ancora in Italia, allo sbando, incalzato dall’avanzare inesorabile delle truppe alleate che stanno depurando il nostro sgangherato Paese dalle scorie di quello che fino a un anno prima sembrava l’esercito più potente del mondo, al quale nulla e nessuno avrebbe potuto resistere. Solo per pochi mesi infatti – anche se alcuni storici sostengono si sia trattato di questione di giorni – l’esercito tedesco sarebbe riuscito a mettere a punto non solo potentissimi razzi dalla gittata fino ad allora ritenuta impossibile da ottenere, ma anche i primi aviogetti a reazione con i quali sarebbe stato un gioco da ragazzi annientare la controparte nei cieli dell’Europa.
Le strade delle nostre città vengono invase da quella che la stampa dell’epoca ci tramanda come una festa di popolo: fiori, canti, parate militari, foto di ragazzini con a tracolla un mitra più grande di loro, ragazze che abbracciano gli angeli a stelle e strisce che marciano con i loro carri armati sopra i resti dei monumenti fascisti buttati giù a martellate da tanti che fino al giorno prima avevano indossato una camicia nera. Quel giorno, in Italia non c’era più un fascista neanche a pagarlo oro…
La Liberazione fu anche questo. Ma non solo.
Dietro a quella manifestazione di spontaneità popolare, vestita a festa con l’abito della domenica e il trucco delle grandi occasioni, si nascose neanche troppo velatamente tutta una serie di atti di pura e sconsiderata violenza il cui tanfo arrivò ben presto alle narici della gente. Vi fu una delle più terribili guerre civili che lasciò a terra tantissimi italiani: vendette trasversali, un Comitato di Liberazione Nazionale al quale sfuggì di mano il controllo sulle varie bande partigiane tra le quali confluirono moltissimi figuri pervasi da tanta voglia di uccidere e da una pressochè inesistente coscienza civica: gente che con il vero movimento partigiano e con le sue genuine tradizioni di libertà non aveva nulla a che vedere. Un fazzoletto rosso legato al collo, un mitra o un moschetto imbracciati alla meno peggio erano la licenza di uccidere senza troppi ripensamenti chiunque ti guardasse storto. E quando non si trovavano armi da fuoco, anche una roncola andava bene…
Della guerra civile che insanguinò le strade e le campagne soprattutto del centro – nord Italia si è scritto tanto. Sono dovute intervenire ben due amnistie per cancellare con un colpo di spugna dalla lavagna della storia tante brutte vicende scritte con il sangue. Si dice anche che fossero stati gli stessi vertici del C.N.L. a “tollerare” per un certo periodo tutti quegli sfoghi belluini che videro fucilazioni sommarie sui portoni di casa, gente attaccata ai pali della luce con al collo un cappio e un cartello con la scritta “fascista” o più semplicemente uomini e donne fatti sparire misteriosamente. Atti compiuti dagli stessi soggetti che fino a ieri avevano combattuto quell’esercito tedesco del quale avevano però imparato alla perfezione metodi di sterminio e torture… Si preferì insomma una valvola di sfogo ammantata dalla voglia di libertà e di annientamento di ogni forma di dittatura o di semplice potere statale ad un controllo ferreo di una reazione popolare che sarebbe stato comunque impossibile da attuare.
Alla guerra civile italiana fece da contraltare la fuga forsennata verso nord dell’esercito nazista che aveva perso ogni forma di disciplina, di gerarchia, di codice d’onore. Non era più un esercito, ma un fiume di sbandati armati, pericolosi e consapevoli di rischiare una palla alla schiena ad ogni curva fatta con i loro mezzi dalla svastica malamente cancellata. E per non sapere né leggere né scrivere, soprattutto quando non si sapeva parlare manco una parola d’italiano, questi fuggiaschi pensavano bene di sparare, annientare, bruciare e saccheggiare ogni paese che incontravano sul loro barbaro cammino. Uomini, donne, vecchi, perfino bambini non solo “semplicemente” uccisi ma torturati nel modo più efferato: non erano più i rastrellamenti alla ricerca dei cosiddetti “banditen”, cioè i traditori, i partigiani, le stesse camicie nere che all’indomani dell’Otto settembre 1943 furono visti come rinnegati sovversivi. Rastrellamenti che bene o male fino ad allora avevano avuto un obiettivo specifico. Ora era come la caccia alla lepre, si sparava nel mucchio e su ogni cespuglio che faceva rumore. Il tutto “condito” da stupri e torture: le stesse che si vedranno tra un paio di mesi sul confine orientale, le stesse di tutte le epoche, la ragione umana che si spegne e lascia campo libero alla bestia che c’è in ogni uomo.
La gente comune lo sa: le voci viaggiano con le staffette partigiane dalla Toscana, dall’Emilia Romagna, dal Veneto… Il messaggio è sempre lo stesso: “Attenti, arrivano i tedeschi, cercate un rifugio sicuro!” Ma dove lo trovi un rifugio sicuro, quando la sicurezza non ce l’hai nemmeno più in casa? Come fai tu, padre di famiglia, a difendere i tuoi cari che ti guardano con occhi carichi di speranza e fiducia? Come glielo spieghi, che lo schioppo del nonno serve a malapena per sparare agli uccelli, ma che nulla può contro gli MP40 tedeschi?
E questi avanzano inesorabili ogni giorno verso un confine che sembra non arrivare mai: prima di loro arrivano le notizie, la gente scappa nei boschi o cerca rifugio in alta montagna tra gole e vallate conosciute. Altri dicono: “Ma no, dai, questi hanno fretta di tornare a casa. Vedrai che passeranno veloci, basta non fare resistenza e se ne andranno..” Il resto te lo racconta la storia, caro lettore: sono testi “scomodi”, per molto tempo negati e criticati perchè ritenuti troppo crudi: ma quando una sera in televisione ascolti la voce di una nonnina che all’epoca era poco più che ventenne e che ha visto ciò che racconta, lo ha vissuto sulla sua pelle e si è salvata solo perchè si è nascosta sotto cumuli di morti alti due metri, qualche domanda in più comincia a fartela. E’ meglio.
Cuneo, 25 aprile 1945.
La cittadina piemontese è in festa come il resto del Paese. La guerra è finita, la radio lo ha comunicato: Mussolini in fuga, poi catturato, infine sommariamente fucilato con la sua amante… Il C.N.L. Che si impone come unica autorità riconosciuta dal popolo… I primi decreti scritti sulla carta del formaggio, ma dal valore indiscusso e immediatamente operativi… Sono giorni convulsi, quelli: la gente ebbra di una libertà troppo a lungo negata non capisce ancora che una cosa è il dire, ben altro è il fare. Cuneo, poi, è una città particolare: ha vissuto le traversie della guerra come tutte le altre, si è vista inglobare nella Repubblica Sociale Italiana ultimo rigurgito di un fascismo ai suoi rantoli finali. Ma tutto sommato non ha patito troppo, vuoi per la sua posizione geografica, vuoi per un’amministrazione oculata che non portò mai alle estreme conseguenze le disposizioni provenienti dal Duce. Le cronache ci tramandano la descrizione di un grosso paese pedemontano in cui la Polizia Repubblicana era più impegnata nel contrasto alla borsa nera e ai fenomeni di brigantaggio che non in retate dallo schietto tenore politico: i partigiani, dal canto loro, mantenevano un profilo basso e raramente si misero in luce con atti plateali contro le autorità. Autorità che per contro sapevano benissimo dove andare a trovarli, se fosse stato necessario… Insomma, un clima di generale tolleranza che annoverò ben pochi episodi veramente rilevanti.
Il 26 aprile 1945 giunge alle prefetture di tutte le città una disposizione del C.N.L. secondo cui tutte le Forze militari non direttamente alle dipendenze del Comitato dovevano deporre le armi consegnandole alle brigate partigiane che da quel momento sarebbero diventate organo esecutivo del nuovo transitorio sistema di governo; la stessa cosa avrebbero dovuto fare tutti quei privati cittadini non direttamente autorizzati alla detenzione di armi da fuoco. I contravventori sarebbero stati considerati come sovversivi e pertanto immediatamente fucilati. Questo significa disarmare anche Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza i cui compiti istituzionali vengono momentaneamente “congelati”. Ma anche qui tra il dire e il fare….
Il 28 aprile 1945 è una giornata assolata e ventosa: dalla val Varaita soffia una brezza impetuosa che ha pulito il cielo da ogni nuvola e che fa ancora sospirare i tepori primaverili. Nella tarda mattinata arriva in città una colonna di militari germanici che di militare non ha più nulla: barbe lunghe, visi sfatti, uniformi luride, assoluta trasandatezza. Ma soprattutto preoccupa quello sguardo allucinato di uomini che hanno con ogni evidenza perso il senso della ragione. Ben presto i nuovi arrivati si comportano da padroni assoluti: ordini sbraitati in ostrogoto e chiaramente non compresi dalla cittadinanza vengono evidenziati con le prime raffiche di mitra. Cadono i primi morti, questi sì con lo sguardo incredulo: ma la guerra non era finita?… La gente corre verso l’unica autorità reale da sempre riconosciuta ancorchè temuta: la Questura. Qui i militari di P.S. ricevono ordini chiari e tassativi: reagire, costi quello che costi.
Quello che accade in città giunge fulmineo alle orecchie delle brigate partigiane che stazionano nelle montagne circostanti. Queste piombano a valle come missili, convinti di riuscire a debellare quella che doveva essere l’ultima sacca di resistenza di un esercito arreso agli Alleati e alla storia. Non fu così. Come i primi partigiani entrano in città, vengono spazzati via da precise raffiche di mitragliatrice pesante; i tedeschi hanno fatto saltare con la dinamite tre arcate del viadotto sullo Stura, isolando il centro dall’esterno. Si sono appostati ovunque, il loro addestramento riemerge da sotto la sporcizia degli abiti più lustro che mai. Ma hanno commesso un deplorevole errore di valutazione: abbattendo quel ponte si sono anche preclusi l’unica via di fuga possibile da quel paese a loro sconosciuto: già, perchè le montagne a nord ovest sono piene di partigiani il cui stato d’animo non è molto propenso al perdono e alla misericordia. Mentre in città ci sono i militari italiani, armati e inferociti. L’esercito tedesco capisce presto una sola cosa: di essere con le spalle al muro.
E qui inizia la storia, quella che passerà agli annali come la battaglia di corso Dante.
Un uomo corre. Corre lungo una strada, scansando altra gente, con il respiro che gli si strozza in gola. Indossa un’uniforme grigio-verde, le mostrine della Polizia Repubblicana cucite sul bavero della giacca. Si chiama Mario Coscia, è una guardia di Pubblica Sicurezza della questura di Cuneo, ha 26 anni. Ha appena visto morire altri suoi colleghi, presi al laccio come leprotti, falciati da raffiche di mitra mentre si erano frapposti con la loro presenza tra il crucco invasore e i concittadini. Mario sta cercando di ricongiungersi al resto del suo reparto sparpagliato qua e là: sempre di corsa imbocca una delle traverse di corso Dante, il luogo della carneficina sapendo che i tedeschi sono tutti lì. Magari, pensa, se riesce ad aggirare il loro sbarramento è salvo. Non fa però in tempo a completare il pensiero perchè un proiettile di Mauser sparato da uno dei nemici lo centra al petto inchiodandolo al selciato polveroso. Il vento continua a soffiare.
In corso Dante, nel frattempo, si sono create due barricate: da un lato i tedeschi, dall’altro gli italiani. Molte guardie di P.S. contribuiscono ad accatastare materiale trovato per strada: cassettoni, vecchi carretti, sacchetti di sabbia… Il tutto sotto il fuoco preciso e costante delle mitragliere 7,62 che falciano chiunque capiti a tiro. Muoiono così il brigadiere Ugo Marano e la guardia Nazzareno Pellegrini: accomunati nel loro lavoro, avevano entrambi aderito alle formazioni partigiane, il primo assegnato alla 11° Divisione “Garibaldi” e il secondo alla brigata SAP “Cuneo”. Sempre per entrambi, un doppio rischio: quello legato al loro lavoro di poliziotti e quello connesso all’attività “collaterale” partigiana. Ed entrambi morti per difendere la loro Italia.
C’è un altro poliziotto – partigiano che si sta giocando la vita. Si chiama Agostino Scarpaci, ha 31 anni. Anche lui capisce che quel giorno non ci saranno né vinti né vincitori. Si tratta solo di capire come vivere o come morire. Di lui non sappiamo molto: le sterili documentazioni rinvenute su di lui lo indicano come “sommariamente fucilato dai nazisti”: per completare la sua storia possiamo solo affidarci alla poca stampa dell’epoca e ad alcuni testi storici dai quali emerge una verità ancora più drammatica. Non si fecero prigionieri, quel giorno in corso Dante: chi non fu abbattuto dalle raffiche di mitragliatore, fu catturato e fucilato di fronte a un portone di una casa o dietro il muro di un camposanto. Questo se eri un militare. Per i civili che si schierarono con loro, la sorte ebbe invece in serbo una corda di canapa e un palo del telegrafo.
La battaglia di corso Dante andò avanti un giorno e mezzo. Mi piacerebbe dirti, caro lettore, che si concluse con la vittoria dell’orgoglio italiano che, sebbene piangendo i suoi morti, cacciò l’invasore. Mi piacerebbe descriverti le scene di gioia, gli abbracci e le lacrime dei sopravvissuti. Vorrei tanto poterlo fare. Ma la mia passione per la storia del nostro Paese non mi permette di scostarmi dalla verità nemmeno quando avrei voluto che fosse stata ben altra. In corso Dante non ci furono né vinti, né vincitori: le cronache ci parlano di un rimasuglio di esercito tedesco che riuscì a scappare per i campi e lungo le vallate quando rimase senza munizioni, lasciandosi dietro un tappeto di cadaveri; i Cuneesi, a loro volta decimati, raccolsero i loro morti per dargli un minimo di sepoltura. Le barricate furono eliminate, solo un prete ebbe il coraggio di andare a benedire alcuni corpi quando ancora le ultime pallottole fischiavano maligne tra i portici e lungo le vie. Non c’è altro da dire su quel giorno di follia, su una battaglia combattuta in un Paese appena uscito dalla guerra e perciò fresco di pace.
Un solo dettaglio mi sento di evidenziare. Una Polizia Repubblicana che al suo interno annoverò molti partigiani: non è una contraddizione in termini, ma semplicemente il frutto più bello di un’italianità che andava oltre una divisa di regime. Questi ragazzi di corso Dante sono morti facendo il loro dovere di Poliziotti. Il loro dovere di uomini. Il loro dovere di Italiani.
Per la Redazione Cadutipolizia: Gianmarco Calore