La fine del mondo
LA FINE DEL MONDO
di Gianmarco Calore
Cosa succede quando senti i tuoi piedi tremare sotto una scossa di terremoto? Quali sono i meccanismi ancestrali e istintivi che scattano nella tua mente quando realizzi che ovunque cerchi di scappare, sei comunque in pericolo? Nessuno lo sa. Lo puoi domandare a chiunque, ai sopravvissuti dell’Irpinia e del Friuli Venezia Giulia: nessuno ti sa rispondere. I Friulani credettero che dal monte San Simeone si fosse risvegliato l’ “Orcolàt”, quel mostro dormiente la cui leggenda raccontata dai nonni davanti al focolare di casa ha terrorizzato tanti bimbi, subito consolati dal tepore di un abbraccio.
A Messina il 28 dicembre 1908 in molti credettero che fosse arrivata la fine del mondo.
Le cronache dell’epoca immediatamente antecedenti al disastro ci descrivono una città che aveva appena festeggiato con gioia il Natale. Per le strade, carretti di caldarroste e carrube accompagnavano l’organetto a mano di un saltimbanco che allietava i passanti. In piazza, uno dei tanti cantastorie romanzava un’antica fiaba sicula attirando l’attenzione della gente. Il freddo era pungente, sui colli aveva fatto la comparsa perfino la neve. I messinesi si affrettavano a fare gli ultimi acquisti per l’imminente capodanno in un clima di gioia serena frammisto di profumi di arance, castagne, frutta candita. Al mercato si stava contrattando vivacemente l’acquisto di un pezzo di manzo o di un cappone. Per le strade, i ragazzini giocavano a rimpiattino rincorrendosi tra gli adulti sotto lo sguardo severo ma indulgente di qualche Guardia di Città. A teatro veniva proposta l’Aida di Verdi e i messinesi avevano appena festeggiato Santa Barbara con la processione e i fuochi d’artificio. Reggio Calabria aveva invece inaugurato il modernissimo impianto di illuminazione elettrica.
Il 27 dicembre Messina e Reggio Calabria si addormentarono così, in un clima sereno di fiducia verso un futuro promettente. Ma alle 5,21 del giorno successivo quella che in molti credettero essere l’ira di Dio si abbattè senza alcuna misericordia al largo delle coste siciliane: un terremoto di magnitudo fino ad allora inconcepibile esplose sul fondo del mare nello stretto di Messina. La scarsa profondità delle acque e l’esiguo spazio esistente in quel punto non fecero altro che amplificarne la devastante potenza distruttrice che si riversò implacabile sull’uno e sull’altro versante. Messina venne rasa al suolo, Reggio Calabria subì danni altrettanto pesanti anche se la sua costa strapiombante riuscì in qualche modo ad assorbire meglio l’urto del sisma. E dove non fece danni il terremoto, ci pensò uno tsunami di acqua, un maremoto con onde alte come un palazzo di sei piani che spazzarono via dalle coste e dall’entroterra tutto ciò che trovarono sul loro cammino.
Cosa succede all’uomo quando viene svegliato nel cuore della notte da un boato sordo che cresce e che non si ferma più? Cosa gli passa per la mente quando intorno a sé vede tutto crollare, sgretolarsi, abbattersi al suolo? Che ne è della sua fede in Dio quando in strada vede aprirsi sotto ai suoi piedi crepacci profondi che inghiottono ogni cosa verso l’inferno? Perchè questi fatti non succedono mai di giorno. Ci avete mai fatto caso? I più grandi disastri capitano sempre di notte: Friuli, Irpinia, il Vajont, l’esondazione del Po e dell’Arno… capitano sempre quando l’essere umano è più indifeso. Cioè quando sta dormendo. Non sto qui a descrivere la scena che si presentò ai primi soccorritori; non sto a citare testimonianze di chi ebbe la fortuna di sopravvivere per tramandare ai posteri un incubo di tale forza da far uscire di senno chiunque.
Mi soffermo invece su un aspetto che molti non hanno considerato. Vale a dire i due giorni in cui per il mondo intero Messina e Reggio Calabria non esistettero più. Quali erano i mezzi di comunicazione dell’inizio Novecento? In un’epoca come la nostra in cui le informazioni viaggiano pressochè in tempo reale risulta inconcepibile come la prima notizia del disastro giunse a Roma solo la sera del 28 dicembre, a quasi 24 ore dagli eventi. I primi soccorsi vennero inviati durante la notte ma non giunsero prima della fine del 29 dicembre: 48 ore… Nessuno ci dice cosa devono essere state per i sopravvissuti quelle 48 ore. Morte, distruzione, geografia modificata da continue scosse di assestamento che fecero piombare le coste siculo-calabre in un girone infernale. Nemmeno i pochi preti superstiti riuscirono a portare una parola di speranza, un barlume di fede tra le loro pecorelle che vagavano annichiliti ed esausti tra il nulla. Cosa devono essere state 48 ore vissute così? Dove all’assenza dei soccorsi subentrò solo la buona volontà dei singoli, scaturita dall’istinto di sopravvivenza che si faceva largo a gomitate su ogni aspetto razionale, con gente disposta ad uccidere chiunque le si fosse parato davanti pur di garantirsi una tazza di acqua potabile, un pezzo di pane raffermo.
La fine del mondo fu anche questo, non solo il sisma e il maremoto. Fu l’abbandono e la sensazione di essere diventati il nulla che pervase l’animo dei sopravvissuti. E quando i primi soccorsi portati da una nave torpediniera della Regia Marina, la “Saffo”, riuscirono ad aprirsi un varco tra i rottami galleggianti che ostruivano il porto di Messina, la gente arrivò a sparare loro addosso nel timore di trovarsi di fronte qualche nocchiero infernale che era venuto a rapire le ultime anime dannate. Morirono tanti ragazzi dei nostri. Il Corpo delle Guardie di Città versò un tributo elevatissimo di vittime. Quelle censite ufficialmente sono 32. Ma di sicuro il numero fu molto più elevato, anche in considerazione dei postumi delle ferite e del fatto che gli archivi del personale vennero completamente distrutti. Morirono questori, delegati di pubblica sicurezza (l’equivalente dei commissari), semplici guardie che, scampate al disastro, sacrificarono la loro vita in un empito generoso di umanità mentre stavano soccorrendo altri concittadini rimasti sotto le macerie, caduti in un crepaccio, sprofondati nei pozzi. Non sapremo mai cosa dovettero attraversare questi Colleghi, cosa passò loro per la mente quando capirono che Dio non esisteva più, non per loro, non in quel momento; quando con i muri di case, chiese e caserme crollò anche la fede nei valori più elevati che mai avrebbero creduto di poter perdere. Dio era stato spazzato via dalle parole di una donna che poche ore prima, inveendo contro i giudici che le avevano condannato il figlio alla galera, avrebbe esclamato: “Malanòva! Addi a’vinìri u’tirrimòtu cu’l’occhi i adda ammazzari vui birbanti i ttutta Missina”( trad.: “Sia Male! Deve venire il terremoto che scelga le sue vittime, e che ammazzi voi e tutta Messina!”). Vero o no, di sicuro in quelle 48 ore di nulla uscì fuori il lato animale di ogni essere umano; ma uscì anche quella generosità spassionata che solo le grandi tragedie riescono a fare emergere. Sono passati 100 anni, un secolo. Il terremoto di Messina e Reggio è un ricordo ancora attuale, entrato a far parte dei modi di dire dialettali. Dobbiamo ricordare quei fatti, quei morti per non perdere la consapevolezza che di fronte alla Natura tutti noi, con la nostra boria e la nostra superbia, siamo come quella sensazione che ha pervaso i sopravvissuti di allora: la sensazione di essere nulla.
Per la Redazione Cadutipolizia: Gianmarco Calore