Un giorno in novembre. (l’assassinio della Guardia Antonio Annarumma, 19 novembre 1969)
Milano, Via Larga. 19 Novembre 1969
Come sei finito qui? come diavolo hai fatto a finire in questo casino?
Cinque minuti fa era tutto tranquillo ed ora sembra una guerra. Il collega sul sedile accanto a te lancia un candelotto lacrimogeno contro i dimostranti. Tu ne eviti altri due che, in mezzo alla strada, stanno cercando di scagliarti contro…che cos’hanno in mano? delle lance…no, dei tubi di metallo.
Dei tubi di metallo??? ti chiedi sorpreso.
Ma che c**** sta succedendo?
Sterzi il tuo gippone OM52 davanti al teatro Lirico, dove il gruppo dei contestatori è più violento, da dove parte il lancio di oggetti contro gli uomini del III Reparto Celere di Milano.
Sanpietrini, mattoni, bulloni e tubi di acciaio smontati da una impalcatura vicina colpiscono il tuo veicolo sul cofano e sulla capotte di tela rigida. La via sembra esserne letteralmente ricoperta da quei maledetti tubi e la tua jeep sobbalza quando ci passi sopra, ma tu non ci badi.
Insieme agli altri militari del reparto il vostro compito è quello di impedire la formazione di gruppi di rivoltosi più violenti, usando la tattica chiamata dei “caroselli”, cioè di cerchi concentrici sempre più ampi, destinati a disperdere quelli che all’epoca, con un eufemismo burocratico, vengono chiamati “i facinorosi”.
E tu fai il tuo bravo carosello, mentre la tua bocca è secca per la paura e cerchi di stare attento a non investire nessuno e, soprattutto, a non sbagliare manovra ed a finire tra la vicina folla, tra le centinaia di persone che urlano slogan e brandiscono contro di te e scagliano decine di oggetti contro il tuo mezzo e contro di te.
Come quel ragazzo dal maglione bianco, il quale impugna un tubo metallico come fosse un giavellotto.
Ti togli il copricapo con visiera e con la frenesia dovuta alla paura cerchi di indossare l’elmetto. E’ la cosa migliore da fare in quel momento, con tutto quello che vi sta piovendo addosso.
E’ adesso il ragazzo con il maglione bianco attacca. Con una rapida corsa si para in mezzo alla strada e, brandendo il tubo come se fosse una lancia, lo scaglia contro di te. Il tubo ti colpisce alla base del collo con tanta forza da sfondare il parabrezza e trapassarti da parte a parte.
Forse hai avuto il tempo di sorprenderti, prima di morire.
La Guardia di Pubblica Sicurezza Antonio Annarumma, appartenente al III Reparto Celere di Milano, muore il 19 Novembre 1969. E’ un Poliziotto come tanti di quegli anni. Proviene da Monteforte Irpino, un paese in provincia di Avellino, dove è nato 22 anni prima da una famiglia di braccianti agricoli. Un ragazzo normalissimo che ha trovato quello che si chiama un “posto sicuro” in Polizia, ma che è stato scaraventato nella contestazione del ’68 e degli anni successivi , in quelli che qualcuno ha definito “anni formidabili” .
Ora è solo un corpo senza più vita sul sedile di guida di un gippone OM52 della Polizia, con un tubo che lo ha trapassato da parte a parte e una pozza di sangue che si allarga sempre di più sul pavimento dell’auto.
La rabbia per l’accaduto tale da far perdere la testa a molti agenti. Antonio è uno di loro. Come loro si è sobbarcato per mesi sputi, lanci di oggetti, attacchi da parte degli studenti, gente che, secondo l’ottica della maggior parte dei Poliziotti di allora, sono solo un branco di figli di papà scansafatiche che sputano su opportunità che loro avrebbero solo sognato.
Come loro si è svegliato ancora prima dell’alba per andare in servizio di ordine pubblico, avendo come “genere di conforto” (il grottesco nome del sacchetto di cibo contenente il pranzo) solo un panino alla mortadella e una bottiglietta di succo di frutta, e rimanendo in servizio sino a tarda serata a ricevere la quotidiana razione di disprezzo da parte degli odiosi figli di papà.
Come loro vive in camerate militari dove il riscaldamento d’inverno funziona quando capita, dove i cessi sono perennemente otturati e dove quando vuoi fare la doccia devi andare negli appositi locali ricavati nel piazzale (fantastico soprattutto nelle gelide temperature dell’autunno e dell’inverno0 milanese).
Come loro ha rischiato la vita (ed ora è morto) per quattro maledetti soldi di stipendio.
La rabbia è feroce, decine, forse centinaia di Poliziotti urlano di voler vendicare Antonio, afferrano le armi e cercano di uscire dalla Caserma di Piazza Sant’Ambrogio per fare giustizia sommaria.
Il generale di pubblica sicurezza che tenta di trattenerli, trattandoli con durezza, viene cacciato dagli agenti ormai sull’orlo dell’ammutinamento.
La Caserma viene circondata dal Battaglione dei Carabinieri e si sta per arrivare ad uno scontro tra Corpi dello Stato che non ha precedenti dal 1945.
La catastrofe viene scongiurata solo grazie all’intervento di alcuni ufficiali di Polizia amati e rispettati, i quali riportano alla ragione i propri uomini. Ugualmente però alcuni agenti, ritenuti tra i capi dell’ammutinamento, vengono inviati al Tribunale Militare e diversi di loro vengono discretamente destituiti.
Le altre vittime di Via Larga.
L’assassino di Antonio non è mai stato scoperto.
Nel racconto lo abbiamo definito un “ragazzo dal maglione bianco”, ma la verità è che nella concitazione degli scontri di quel giorno in via Larga nessun testimone ha mai potuto identificare l’assassino.
Un assassino che non ha mai pagato per quello che ha fatto, ma ciò che è peggio, viene ancora protetto da una omertà sconvolgente da parte di molti individui che, ancora oggi, nonostante le prove, le testimonianze, le risultanze dell’inchiesta, continuano a sostenere la tesi di un incidente tra la jeep di Antonio e un altro automezzo della Polizia, un incidente trasformato dai biechi sbirri in omicidio per denigrare la protesta del ‘68.
Un vero e proprio tentativo di depistaggio intellettuale, compiuto nell’intento di allontanare dal Movimento Studentesco e più in generale dai gruppi di contestatori di allora (ai quali in molti appartennero) il sospetto della diretta responsabilità del primo omicidio degli Anni di Piombo. Voglio illudermi che forse fu fatto in buona fede, nella speranza da parte degli ex contestatori che nessun “sognatore”, nessun “ribelle”, nessun “ragazzo del ‘68” si sia reso responsabile di un delitto tanto atroce.
Voglio illudermi che sia per questo motivo, ma purtroppo temo che non sia così. Temo invece che sia scattato un meccanismo, mi auguro inconscio, di omertà mafiosa.
Dopotutto Antonio era uno sbirro e per di più “terrone”, mentre l’individuo che gli strappò la vita era di certo uno studente, forse addirittura appartenente alla borghesia milanese, sicuramente però protetto da una solidarietà ignobile che gli ha permesso di vivere indisturbato questi 38 anni che ha tolto ad Antonio.
Non credo che quell’individuo negli anni successivi sia transitato nel terrorismo, non lo credo perché un delitto simile, in quegli ambienti sarebbe stato considerato come una medaglia al valore e il nome dell’esecutore sarebbe uscito allo scoperto prima o poi. Credo invece che sia diventato un bravo borghese, come volevano papà e mamma, ed abbia vissuto questi anni come professionista affermato. Una bella moglie e un paio di figli (fatti studiare in scuole private, per carità) e una bella amante, stipendio alto, investimenti oculati, a Natale vacanze sulla neve e in estate magari una bella gita ai Caraibi.
Una vita che non ha avuto conseguenze, dopo quel “piccolo errore” di Via Larga.
(per la redazione di Cadutipolizia.it Fabrizio Gregorutti)